venerdì, dicembre 16, 2011

Recensione del live di Gianmaria Testa a Milano

Gianmaria Testa in concerto a Milano, poesia piena di umanità





di Fabio Antonelli

Artista
Gianmaria Testa

Luogo
Teatro Dal Verme - Milano

Data
13.12.2011


Martedì 13 dicembre, Gianmaria Testa, l'ex ferroviere di Cuneo che scrive e canta poesia, ha fatto tappa a Milano con il suo tour di presentazione del nuovo album "Vitamia", per la precisione l'ha fatto nella bella cornice del Teatro Dal Verme, ultima di una serie di date italiane e giusto prima di tornare all'estero in Austria, Germania, Svizzera, Francia, paesi che hanno ormai imparato ad amarlo più di noi italiani, forse troppo presi dalle manovre o meglio dalle tasse del nuovo governo, giacché il teatro era pieno per metà ed è stato davvero un peccato perché di concerti così non se ne vedono tutti i giorni.

Prima di tutto perché Testa è sicuramente uno dei punti cardini dell'attuale canzone d'autore italiana, sebbene sia giunto alla pubblicazione del suo primo disco "Montgolfières" (per altro pubblicato con l'etichetta francese Label Blue) solo all'età di trentasette anni, ha saputo poi recuperare il tempo "perduto" pubblicando una serie di dischi notevoli, fino alla vittoria nel 2007 della Targa Tenco come "Migliore album in assoluto dell'anno" con l'album "Da questa parte del mare", bellissimo "concept" sul tema attualissimo dell'emigrazione.

Secondo validissimo motivo è che per l'occasione era accompagnato da un quintetto d'eccezione, quei musicisti che lo accompagnano ormai da tempo e con il quale ha un affiatamento meraviglioso, una vera delizia vederli all'opera sia in veste totalmente acustica sia in quella più elettrica, nuove sonorità piano piano introdotte da Testa nel suo ultimissimo lavoro.

Devo ammettere che vederlo suonare una fender stratocaster mi ha fatto un certo effetto e personalmente continuo a preferirlo nella veste più minimalista, anche la più estrema, proprio come quando solo voce e chitarra ha voluto dedicare una toccante "Ritals" al campo rom appena incendiato Torino, dopo aver prima spiegato che il termine "rital", insegnatogli dallo scomparso amico scrittore Jean-Claude Izzo, marsigliese ma di padre salernitano, ha un po' la stessa valenza dispregiativa del nostro "terrone" e sta a indicare quei francesi di origine italiana che neppure dopo anni di vita in Francia, riuscivano ancora a pronunciare correttamente la "r" francese.


E' però, evidentemente, solo una questione di gusti e non certo di qualità, sebbene Testa, nel presentare la canzone "Cordiali saluti", un funky che è una lettera di licenziamento ispirata all'omonimo libro di Andrea Bajani, romanzo in cui il protagonista vive giornate lavorative a scrivere lettere di licenziamento, guardando i colleghi "in esubero" che ripongono gli oggetti personali dentro piccole scatole e si avviano lentamente verso casa, ha voluto scherzare sul tema dicendo che dopo quel pezzo a esser licenziato come chitarrista elettrico sarebbe dovuto essere proprio lui.

Un Testa scherzoso e molto cordiale, che ha speso belle parole per presentare alcuni passi cruciali della sua scaletta, in cui ha sapientemente miscelato i pezzi nuovi ad altri provenienti dai dischi precedenti come "Polvere di gesso", brano applaudito sin dalle prime note.

Un altro momento clou è stato quello in cui ha illustrato la genesi di "Lele", una canzone del nuovo disco scritta trentacinque anni fa, ma pubblicata solo ora, ispirata alla triste vicenda letta allora in un breve trafiletto pubblicato da un giornale che si chiamava Gazzetta del Popolo, un bel titolo, anche se il giornale non era un granché aggiunge Testa, lì chi scriveva raccontava del suicidio di una madre evidenziando due aspetti, che la donna era meridionale (allora, ha spiegato Testa, molte erano le donne del sud che salivano nelle Langhe per sposare contadini per procura) e che il suo gesto non teneva in considerazione i figli che lasciava. La canzone ha poi spiegato, è rimasta lì tanti anni ma ora è diventata di un'attualità disarmante e le donne di oggi, soprattutto le tante emigranti giunte da ogni parte del mondo, ancor più di allora sono davvero l'anello forte della società, come ha ben scritto Nuto Revelli nel suo libro "L'anello forte", però come sempre sono anche quelle che subiscono maggiormente ogni momento complicato della società.

Società attuale già complessa di suo senza che ci sia la necessità di creare ulteriori falsi problemi, ma la stupidità umana non ha limiti spiega Testa in un altro momento del concerto, quando spiega "20 mila Leghe (in fondo al mare)", non certo una trasposizione del capolavoro di Jules Verne, bensì una filastrocca che narra di come, partendo dal Capo di Buona Speranza, i mari cominciarono a volersi dividere, fino ad arrivare alla separazione finale dei due atomi d'idrogeno da quello di ossigeno perché in maggioranza, la conseguente scomparsa dell'acqua e la fine del mondo.

Non c'è alcuna speranza allora per l'uomo di oggi? Forse si, quella di aggrapparsi ai sogni come speranze, come suggerisce "La giostra", giocosa e festosa canzone scelta da Testa per chiudere il suo concerto.

Il pubblico, anche se non numerosissimo, è però calorosissimo con lui che ricambia con un primo bis in cui esegue due bellissime canzoni "Come le onde del mare" tratta dal suo primo disco "Montgolfières" e "Come al cielo gli aeroplani" l'inedito brano contenuto nel suo precedente disco live "Solo dal vivo".

Poi, richiamato ancora una volta sul palco dagli interminabili applausi del pubblico, propone una canzone solo voce e chitarra, a suggello dell'intera intensa serata e come sincero augurio in un periodo davvero amaro sotto ogni punto di vista, in cui l'unica ricetta possibile forse, è quella di cercare di affrontare la profonda crisi in atto, attraverso la vicinanza, ecco allora la magnifica "Dentro la tasca di un qualunque mattino".

E' davvero la fine, resta il ricordo di un concerto impeccabile quanto emozionante, ma ciò che più conta è che la poesia in musica di Gianmaria Testa ha fatto breccia nei cuori di ognuno, una poesia piena di umanità.

Le foto sono gentilmente concesse da Paola Mombrini.


Musicisti
Gianmaria Testa: voce e chitarra
Roberto Cipelli: pianoforte
Giancarlo Bianchetti: chitarre
Claudio Dadone: chitarre
Nicola Negrini: contrabbasso e basso elettrico
Philippe Garcia: batteria

Links

martedì, dicembre 06, 2011

Recensione CD “Sto bene” di Giorgia del Mese

Giorgia del Mese: “Sto bene”
Se non milito, io canto!

di Fabio Antonelli


Giorgia del Mese, nativa di Avellino, ma da anni a Firenze, giunge al suo disco d’esordio “Sto bene” dopo un quinquennio d’importanti riconoscimenti, nel 2006 è migliore cantautrice al Premio Nazionale per cantautori “Scrivendo canzoni”, nel 2007 vince il premio “Personalità artistica” al Concorso Nazionale per cantautori “Premio Poggio Bustone” e il “Premio della critica” al concorso nazionale per cantautrici “Premio Bianca D’Aponte”. Nel 2009 vince il Premio Nazionale per cantautrici “Tra musica e parole” e i premi della critica e “Top One Comunication” al Premio Bianca D’Aponte”. Nel 2010 si aggiudica il premio “Migliore interpretazione” al Premio Bindi.

Si potrebbe quindi dedurre che il titolo del lavoro derivi da un certo stato di soddisfazione per quanto realizzato fino ad ora ma non è per niente così, perché ascoltando il disco, ci si accorge ben presto che il titolo è un eufemismo e in realtà è espressione di una calma solo apparente.

Si potrebbe dire che è uno “sto bene” con la condizionale, anche durante la sua ottima apparizione nell’edizione 2011 del Premio Tenco (è stata chiamata anche dagli organizzatori del Premio Tenco), Giorgia ha voluto precisare che la musica per lei è un po’ come una valvola di sfogo e che, è approdata al linguaggio della canzone d’autore, come conseguenza del suo non militare più attivamente in difesa di certi ideali, un’espressione che la accomuna un po’ a quel “io canto per non ammazzare / perché se non canto mi sparo” della canzone “Arte” di Alessio Lega.

Ecco allora che, quelle che a un ascolto superficiale potrebbero sembrare canzoni musicalmente assimilabili al miglior pop d’autore, di botto rivelano tutto un mondo interiore in fermento, che a volte sfocia nel sociale altre volte si limita, invece, a rivelare le proprie difficoltà a rapportarsi con le persone che ci vivono accanto e con la società più in generale.

In ogni caso Giorgia del Mese annovera nel suo bagaglio d’artista ben più di un pregio, primo fra tutti la voce, duttile e profonda, che a tratti mi ricorda per passionalità e soprattutto personalità, quella della scomparsa Mia Martini. Dimostra poi una grinta e un’energia straordinarie nell’interpretare le proprie personalissime creazioni, canzoni che oscillano continuamente tra la migliore canzone d’autore nel senso più stretto del termine, il pop, il rock, il tutto dentro una cifra stilistica unica e riconoscibilissima.

Quali invece i contenuti di queste dieci tracce?

Si parte con “Cattivo tempo”, brano già presentato al pubblico durante la sua prima apparizione al Premio Bianca D’Aponte e che rivela sicuramente il lato più personale di Giorgia, evidente qui è il senso di smarrimento “magari mi chiamo così mi rispondo / magari mi scrivo così mi racconto / magari mi specchio riconosco il mio tratto”.

Lo stesso vale per la splendida “Non starmi a sentire” dove il disagio è quello provato dentro un rapporto a due, descritto tramite un numero considerevole di metafore “Come fosse agosto /senza un temporale / Una coperta in piuma d’oca / e fa già un caldo da morire” in cui però l’amore aiuta a guardare oltre le difficoltà “Come un amaro che se c’è va bene / Ma basta tutto il resto / per saziarmi il cuore / Non mi cambi l’umore / no no no no / Non starmi a sentire“.

Dal carattere pulsante e ondivago, in parte rockeggiante in parte melodica, “Così così” è come fosse la sua carta d’identità e ci rivela non tanto i tratti somatici di Giorgia, quanto il suo modo di essere cantautrice “Io voglio volare senza chiedere scusa / La musica la musica / è cambiata e allora osa“ e lei osa, eccome, con grande personalità.

Un suo forte sospiro, come quello emesso da chi ha ormai superato la soglia della sopportazione, introduce, dopo tre canzoni molto tese e tirate, il brano “Niente da espiare” uno dei più efficaci dell’intero progetto. Meno teso dei precedenti, permette all’ascoltatore di riprendere un po’ il fiato, ma non più di tanto, perché Giorgia ci canta decisa “L’aria crepuscolare non la reggo più e urlo / Guarda attenta c’è un cane / Amore non c’è più niente da espiare”.

“Scusa”, con il suo incedere lento, è invece un’amara riflessione su un rapporto d’amore che vien da lontano, tra tante difficoltà, come accade spesso, ora, però c’è come una maggiore maturità, che porta così a una nuova importante consapevolezza “e chiedo scusa / e non è cosa da niente / chiedere scusa / come chi non si difende / chiedere scusa non cambia il resto di niente”.

La title-track “Sto bene” mostra invece il lato più sociale di Giorgia che parte pur sempre dal proprio io, ma è soprattutto la rabbia di fronte alle mille contraddizioni del nostro paese a emergere e con vigore “io do un nome alle cose / ma mi devo calmare / conviene stare distesi / inspirare e sperare” fino all’unica sua personalissima conclusione “è una cosa normale / anch’io mi sento normale / mi assento un attimo e mi assento / ma vi giuro sto bene”.

“Odio l’estate” vola leggera come tante canzoni estive e per un attimo mi riporta alla mente, forse per il titolo forse per le sue indubbie doti vocali, l’indimenticabile Giuni Russo di “Un’estate al mare”, ma Giorgia non ci sta a certi stereotipi radiofonici, al divertimento a tutti i costi e allora canta “Estate ma ho una vendetta / basterà aspettare / il cielo grigio / si dà meno arie / mi siedo piano / e aspetto un temporale”.

“Ad alta voce” è una canzone tesa che denuncia i soprusi fatti da chi indossa una divisa e lo fa vivendo il proprio ruolo ad alta voce “Io vivo ad alta voce / Per non farmi più assordare / E sparo prima / Di restarci troppo male” e allora autogiustifica quanto accaduto a un ragazzo di Ferrara così “E poi vedessi quei suoi occhi / Pieni di fuoco rosso / Per calmarlo è stata dura / Mica è colpa mia se è morto” e quello a un altro ragazzo di Torino così “Torino si sa / è un po’ particolare / E poi non stava tanto bene / Su quella ringhiera / Io l’ho spinto e lui è volato / E’ morto solo un poco prima”.

“Io parto” invece, compassata, quasi rassegnata, sembra proprio una resa, derivante da un’insoddisfazione, una noia legata a una situazione fatta di “parole pesanti pomeriggio interminabile / lento fastidioso verso già scritto”, è la fine di un rapporto “lascio chiavi amore e un portone, / parto senza fortuna, / lascio mani sottili e tenerezza per ore, / e chiari i suoi occhi come le sue idee inattaccabili, / lascio numeri spigoli e sbagli tu cercali”. C’è ineluttabilità nel finale “un pomeriggio così te lo dovevi aspettare”.

Sembrerebbe solo una rassegnazione momentanea, il disco sembra poi chiudersi all’insegna della speranza con quel senso di leggerezza derivante dal ritmo sudamericano di “Forte dei marmi”. La canzone, invece, ci descrive il viaggio verso il mare di due innamorati, non manca anche qui l’accenno al sociale “Ma si corre bene verso l’autostrada / Non c’è fila al seggio elettorale / L’astensionismo agevola / il tuo viaggio verso il mare”, ma quel che sembra un idilliaco viaggio d’amore, al secondo ingorgo stradale muta, “Scende il tuo sorriso / e sale il mio disagio” pensa lei e finalmente trova il coraggio per dirgli “Io non ti voglio più / non ti sopporto / Fai il finto modesto Finto Ma sia tutto tu / Io non ti ascolto più / Io non ti credo più / Dici no so’ nessuno / Ma sei così fiero / Sei buono solo tu”. E’ veramente la fine di un amore e non solo, è anche la fine di questo bel disco.

Già mi viene voglia di riascoltarmelo tutto e poi ancora e ancora, ben suonato, grazie anche all’ottima regia di Gianfilippo Boni, il disco non viene mai a noia, voce originalità e personalità sono un triduo vincente, brava Giorgia!















Giorgia del Mese
Sto bene

Pains Records - 2011

Acquistabile nei migliori negozi di dischi

Tracce                                                          
01. Cattivo tempo
02. Non starmi a sentire
03. Così così
04. Niente da espiare
05. Scusa
06. Sto bene
07. Odio l’estate
08. Ad alta voce
09. Parto
10. Forte dei marmi

Crediti
Giorgia del Mese: voce, cori (10)
Bernardo Baglioni: chitarre elettriche (1, 4, 5, 7, 8, 9), chitarre acustiche (5, 7, 8, 9)
Matteo Giannetti: basso (1)
Fabrizio Morganti: batteria (1, 7, 9)
Bruno Mariani: chitarre elettriche (2, 6), programmazione archi (2), chitarre acustiche (6), programmazioni ritmiche (6)
Marco Fontana: chitarre acustiche (2), cori (10), chitarra acustica (10), chitarra classica (10)
Lorenzo Forti: basso (2, 4, 5, 6, 8, 9), basso synth (3), basso (7), bassi (10) 
Marco Barsanti: batteria (2) 
Gianfilippo Boni: tastiere (2, 3, 4, 6, 7, 8), pianoforte (3, 4, 5, 6, 7, 9), rhodes (3, 4, 6), synth (3, 7, 8), programmazioni ritmiche (3, 4, 5, 10), chitarre acustiche (4, 5), archi (5), cori (10)
Paolo Amulfi: chitarre elettriche (3)
Alessandro Potini: batteria (8) 
Davide Zilli: pianoforte (10) 
Nicola Cellai: tromba (10)

Testi e musiche: Giorgia del Mese

Produzione artistica e arrangiamenti: Gianfilippo Boni (tranne “Non starmi a sentire” e “Sto bene” arrangiamenti Bruno Mariani)

Produzione esecutiva: Marco Pini

Registrato e mixato allo studio Paso Doble di Bagno a Ripoli da Gianfilippo Boni

Mastering: Tommy Bianchi al White Sound Studio

Fotografie: Mara Mezzopane

Art Design: Federica Ficarelli

Sito ufficiale di Giorgia del Mese: http://www.giorgiadelmese.it/
Giorgia del Mese su MySpace: www.myspace.com/giorgiadelmese


mercoledì, novembre 30, 2011

Recensione CD “Generi di conforto” di Folco Orselli


Folco Orselli: “Generi di conforto”
Maledettamente bello, quasi fosse realizzato in 3D!

di Fabio Antonelli

“Le dieci tracce che compongono “Generi di conforto” hanno a mio parere le stesse caratteristiche del cioccolato, delle sigarette, di un cordiale sorseggiato quando fa freddo, di una coperta sotto cui addormentarsi, di un fuoco e di un abbraccio. Di conforto appunto”

Così lo stesso Folco Orselli definisce, nel comunicato stampa, il suo nuovo disco “Generi di conforto”, un disco autoprodotto per la sua neonata etichetta discografica Muso Records.

Come dargli torto, questo è un disco maledettamente bello, irrinunciabile. Ecco, se dovesse davvero arrivare la fine del mondo nel 2012, come previsto nella profezia dei Maya e mi dicessero, guarda puoi portarti con te solo una cinquantina di dischi, io a questo genere di conforto non rinuncerei.

Detto questo, ciò che più fa specie è, che un disco così ben realizzato, debba uscire come autoprodotto e che nessuna etichetta discografica di un certo livello possa essere stata interessata, ma questa è un’altra storia, torniamo al disco.

Cominciamo dal bel libretto che, dal punto di vista pittorico, in copertina e contro copertina vanta due splendide opere di Renzo Bergamo. La copertina è un ritratto di Folco, dipinto da Bergamo durante una delle loro, tante amichevoli sedute spese a parlare della vita e, l’altra, è un’opera gentilmente concessa dall’Archivio Renzo Bergamo, per gentile concessione di Caterina Arancia Bergamo, moglie del pittore.

Non possiamo però fermarci al pur bell’involucro, perché è il contenuto a rendere unico questo disco.

Mi concedo però ancora qualche premessa. Il disco ha una genesi piuttosto particolare, è stato pensato e scritto interamente in un trullo vicino a Martina Franca, qui Folco e Vincenzo Messina, arrangiatore e co-produttore del disco, si sono rifugiati per scrivere questi dieci brani, dando libero sfogo alla loro creatività, che ha così partorito arrangiamenti straordinari, pensati per sfruttare al meglio la capacità di creare magiche atmosfere, piccole sfumature che solo un’orchestra d’archi può avere. Si, perché occorre dire che, malgrado si tratti di un’autoproduzione, Folco non s’è fatto mancare nulla e per la realizzazione di questo disco s'è avvalso anche dell’Orchestra Cantelli, cinque primi violini, quattro secondi violini, quattro viole, due violoncelli e un contrabbasso che, guidati da Vincenzo Messina, hanno distribuito con generosità pennellate di colore, lampi di luce, zone d’ombra, realizzando un lavoro prezioso.

La macchina sonora ha poi visto all’opera ottimi musicisti, per lo più di matrice jazz, come Stefano Bagnoli alla batteria, Marco Ricci al contrabbasso, Giorgio Secco alle chitarre, Pepe Ragonese e Daniele Moretto alle trombe, Luciano Macchia al trombone, Valentino Finoli al sax, senza dimenticare lo stesso Vincenzo Messina che vanta un passato e un presente di collaborazioni con Zucchero, Renga, Terence Trent D'Arby e che, in questo progetto, si è destreggiato tra hammond, piano e programmazioni.

Non siamo però ancora giunti al nocciolo della questione, perché a rendere in qualche modo straordinario questo disco, non è tanto il corollario, bensì la manciata di canzoni, dieci per la precisione, che lo compongono.

Canzoni nate da questa premessa, come scrive ancora Folco:

“È possibile ricreare su un disco la commozione trasportata che ci coglie quando, seduti in un cinema, veniamo coinvolti dalla trama e dai personaggi immedesimandoci in loro, partecipando alle loro gioie e ai loro drammi con il solo ausilio di musica e parole e, quindi senza immagini? È possibile scrivere canzoni partendo dalla “visione”, cercando di creare intorno all’ascoltatore un paesaggio visivo attraverso l’uso di un’orchestra d’archi? Musica come colonna sonora cinematografica al testo?”

Folgorato sin dal primo ascolto, dopo un crescendo continuo di piacere ai successivi passaggi, direi che tutto ciò è stato possibile e si è realizzato in questo disco, in cui le musiche hanno una valenza unica, una forza evocativa straordinaria che suggerisce, che sottolinea, che svela e cela continuamente, in un gioco di rimandi. 

Tutto s’incastra alla perfezione in questo mondo visivo e visionario al tempo stesso, ma tutto questo è stato possibile grazie anche alla presenza di testi che, rispetto al passato, hanno abbandonato totalmente forme limitative come il bozzetto o la caricatura, per farsi invece pienamente maturi, riflessivi.

La stessa voce di Folco è si calda ma mai forzata come spesso gli accadeva nei precedenti lavori. Da questo punto di vista direi che l’ombra di Tom Waits s’è totalmente diradata e ne è uscito il vero volto di Folco, quello di grande e raffinato chansonnier.

Non sarà certo un caso se, nel 2008, Folco Orselli s’è aggiudicato, unico nella storia del Musicultura, a vincere tre differenti e importanti premi contemporaneamente nella stessa edizione, il “Premio della Critica”, quello di “Miglior Testo” e di “Vincitore Assoluto votato dal pubblico” con il brano “L’amore ci sorprende”.

A questo punto però, vi starete chiedendo, bello tutto ciò, ma le canzoni?

Mi verrebbe voglia di non dire nulla e lasciare a ognuno il piacere di scoprirle, una a una, perché qui non c’è proprio nulla da buttare e il preferire una canzone piuttosto che un’altra è solo questione di gusti personali.

Mi limiterò ad alcune suggestioni, perché come si può restare, ad esempio, indifferenti al suntuoso incedere della prima traccia, “In caccia di te”, una grande canzone d’amore, che si apre con tanto di rullo di gran cassa seguito dall’orchestra d’archi a disegnare una magica e sognante melodia, fino alla pausa e l’entrata della calda voce di Folco a cantare questi versi “In caccia di te / tradotta in qualche lingua / che a volte scusa ma / io non comprendo / è inutile spigarmi il verso / non sembra appartenere a te questa rima”, il tutto sopra un tappeto di fiati. Migliore inizio non poteva esserci.

Sublime, direi molto anni ’40-’50, “In equilibrio (cadendo nel blues)” mi ricorda lo stile di Lionel Hampton, non ha una nota fuori posto, tutto è in equilibrio come sospeso su un filo. Mirabile l’inizio “E se, e noi / era per ieri e non, / per ora, per sempre / solo per domani” così come la conclusione “Ma se, se noi / riusciamo a dirci che / non è adesso qui il nostro destino / che nella solitudine / si riesce a percepire che / più siam lotani e più siamo vicini”. Tutta la fragilità e la forza dell’amore nel medesimo istante. Fantastica la presenza “vibrante” dell’hammond di Messina.

Un po’ tex-mex, “Dubbi lascia indubbiamente più spazio ai fiati e alle chitarre. Da annotarsi questo passaggio “Alla mia sete porterò / un piatto caldo da mangiare / e alla mia fame poi darò / un otre intero da cui bere”. Difficile nella vita far combaciare sogni e realtà.

“La ballata di piazzale Maciachini” è un azzardo, il voler dimostrare che anche da un insignificante posto della periferia di Milano (la città di Folco), se guardato con occhi diversi, in questo caso quelli davvero sensibili di Folco, è possibile trarre bellezza e poesia. Davvero sugli scudi l’hammond, la sezione fiati e quella ritmica costituita da batteria e contrabbasso. E’ forse l’unico episodio del disco che, per stile, ricorda un po’ il passato di Folco, resta il fatto che è suonato divinamente.

Con “La ballata del Paolone” si torna al versante più intimista, quello forse più congeniale a Folco, anche se non manca qualche sprazzo, seppur brevissimo, davvero brioso e spumeggiante all’interno di questo brano che racconta la storia di un barbone e del suo grande amore per Marisa. La donna, anche lei una barbona “adesso è innamorata del barone / lu ch’el ga pusé del can che del cristian”, ma poi finalmente tornerà da lui “Tu tornerai per dormire nei vagoni / tornerai per questa vita da barboni / tanto un giorno in quella vita dei signori / scoprirai che erano i tuoi i più bei tesori”. Commovente.

“Balla” è l’episodio più folk blues del disco, le chitarre elettriche primeggiano pur restando morbide e suadenti, l’amore si fa passionale ma anche pieno di speranza “E quando l’aria sarà dura / e le tue guance bagnate / sulle paure gira la tua gonna / saranno dimenticate / Balla che sei diversa / hai il sapore del sole”. Trainante.

“Si alzano le code delle giacche / sotto questo vento che ci sbatte / sfoglia lascia nudi senza foglia / in quell’attimo di pace che rimane”, con questi versi si apre invece “Macaria” e, dopo le note interlocutorie del pianoforte, è già magia. Splendida l’atmosfera quasi sospesa di questo brano che racconta del desiderio di sognare, di volare, viaggiare senza meta per tornare e raccontare “Vecchie storie di balle marinaie / che son vere e che ci puoi giurare”.

“Storia della morte e del suo amore”, a tratti epica, a tratti straziante, quasi morriconiana nel suo lento e maestoso incedere, è il magnifico e poetico racconto dell’incontro tra la morte e un giovane del quale s’innamora ma che, ovviamente, poiché morte, non potrà mai amare “No l’amore no / lasciami andare / che morte sono e non potrò mai amare / No l’amore / non posso fare / che mai provai nessun più gran dolore”. Superlativo!

Folle come lo è in fondo, umanamente pensando, la morte, è “Inno alla follia”, un pezzo che si regge su una scrittura musicale e degli arrangiamenti che sono a dire il vero anch’essi folli ma che, come in una magica alchimia, funzionano alla perfezione. C’è pathos, c’è lucida follia, c’è tutta l’umanità dell’affrontare il baratro del nulla dopo la morte “Oh che gioia / ma dove porterà / questo calor che interno mi divora / fino alla cenere / dell’immortalità”.

Bellissimo, infine, il conclusivo “Manila”, lento, ricco di suggestioni, il racconto di un amore che è stato e non è più, rovinato dai pettegolezzi, dalle cattiverie gratuite. Bellissima è la conclusione, quel voler superare ogni difficoltà, quel passaggio dall’essere due individui all’essere un solo noi “Ma il tuo ricordo lo tengo nel cuore e non me lo ruberanno mai / La tua collana la porto sul cuore e non me lo ruberanno mai / il nostro amore lo tengo nel cuore e non me lo ruberanno mai / non ci ruberanno mai”.

Lo solo, le mie dovevano essere solo piccole suggestioni, ma è difficile trattenersi quando capita tra le mani un disco capace di far sussultare il cuore, di far vivere emozioni profonde e sincere.

Ecco, ciò che più apprezzo di questo disco è proprio la sincerità d’intenti, non c’è mai la volontà di voler stupire a tutti costi, semmai il desiderio di comunicare le emozioni vissute dall’autore stesso attraverso altri canali, in questo caso il cinema. Se l’intento era questo, direi che il risultato è superlativo, perché in più passaggi si ha proprio l’impressione di essere immersi in un film, si potrebbe quasi parlare di musica in 3D, dove la terza dimensione è quell’immaginario visivo che si genera nell’ascoltare questi dieci brani.

Non lasciatevelo sfuggire!


Folco Orselli
Generi di conforto

Muso Records/Venus - 2011

Nei migliori negozi di dischi

Tracce           
01. In caccia di te
02. In equilibrio (cadendo nel blues)
03. Dubbi
04. La ballata di piazzale Maciachini
05. La ballata del Paolone
06. Balla
07. Macaria
08. Storia della morte e del suo amore
09. Inno alla follia
10. Manila

Crediti
Folco Orselli: voce, piano, chitarra
Vincenzo Messina: Hammond, piano, chitarra e programmazioni
Giorgio Secco: chitarra acustica, chitarra elettrica
Stefano Bagnoli: batteria
Marco Ricci: contrabbasso
Pepe Ragonese: tromba
Daniele Moretto: tromba, flicorno, corno
Luciano Macchia: trombone
Valentino Finoli: sax tenore, sax alto

Orchestra d’archi
Primi violini: Dimitri Chichlo, Giulia Bizzi, Livia Hagu, Marcello Jaconetti, Andrea Pellegrini
Secondi violini: Ornella Cullaciati, Donata Begiora, Christine Champlon, Fabrizio Francia
Viole: Irina Balta, Elisabetta Danelli, Simona Guerini, Valentina Soncini
Violoncelli: Claudio Giacomazzi, Antonio Patetti
Contrabbasso: Luca Bandini

Testi e musica di Folco Orselli

Produzione artistica: Vincenzo Messina e Folco Orselli

Produzione esecutiva: Fulvio Orselli

Arrangiamenti orchestrazione e conduzione: Vincenzo Messina

Adattamento organico orchestra: Adriana Ester Gallo

Registrato e mixato da Matteo Agosti al Frequenze Studio di Monza

Assistente di studio: Michele Marino Gallina

Masterizzato da Giovanni Versari allo Studio La Maestà di Tredozio

Orchestra registrata all’Elfo Studio di Piacenza

Art Director: Alberto Tandoi

Le foto interne sono di Max Volontè

Sito ufficiale di Folco Orselli: http://www.folcoorselli.it/
Folco Orselli su MySpace: www.myspace.com/folcoorselli